CELESTE MALFATTA
CHERUBINO GAMBARDELLA
GIORGIO VIALI
FURTO IBRIDO
Bellezza imperfetta
Riflettere profondamente sulla sceneggiatura, per considerare la dimensione temporale già nella fase di scrittura. Un ripensamento così radicale non sarà una questione di un giorno. Ci vorrà tempo. E metodo.
Ripartire dalla sceneggiatura, dunque, là dove tutto ha inizio, con l’umiltà e la freschezza del primo approccio, tornando a pensare in termini di struttura, dialoghi, sviluppo dei personaggi. Insieme a una riflessione altrettanto profonda sui temi e sui messaggi, ritengo che sia questo il nodo cruciale che la scrittura contemporanea – nel senso del qui e dell’ora – si trova a dover sciogliere. Ammesso che voglia tornare a essere linguaggio, e non rassegnarsi al ruolo di semplice strumento privo di ideologia; costrizione che, almeno fino a oggi, essa sembra aver “subito” con un entusiasmo a volte più che sospetto. Ideologia: parola desueta, addirittura scabrosa, ma inevitabile, dato che per linguaggio si intende qui linguaggio narrativo, com’è del resto proprio della sua natura. Intendo della sceneggiatura, che è arte eminentemente democratica. Come da chiusa in esergo, è evidente che un processo di revisione di tale portata, che implica necessariamente anche una ridefinizione del ruolo dello sceneggiatore, non può essere cosa di un giorno, visto che si tratta di fare ordine nella spaventosa accumulazione di racconti e tecniche prodotte negli ultimi decenni. Molti, troppi i cliché narrativi. Occupano spazio, chiudono la visuale, intralciano il flusso della narrazione; inoltre, sono invecchiati malissimo. È tempo di buttare via. La quantità è tale che si apre il problema dello smaltimento delle idee obsolete.
Chiedo scusa. Mi è scappato scritto. Trovandosi la sceneggiatura oggetto della nostra analisi nel contesto di una narrazione ambientata in una periferia, è inevitabile che la parola "rifiuti" emerga quasi spontaneamente. Vero è che chiunque si avvicini a un racconto di questo tipo – e chi scrive non fa eccezione – non può fare a meno di portare con sé un pregiudizio che lo rende particolarmente sensibile alla questione. E un pregiudizio, anche quando è fondato, resta comunque un pregiudizio. Come avere una pagliuzza in un occhio: per tornare a veder chiaro bisogna toglierla.
Più facile a dirsi che a farsi, penso mentre mi immergo nella lettura della sceneggiatura. Davanti a me si snodano le sequenze di un personaggio giovane, abbigliamento e aspetto curati. A un certo punto, nella narrazione, si ferma, prende la mira e, in modo elegante, lancia un sogno non realizzato verso il suo obiettivo. Ma il sogno rimbalza e cade a terra. Il personaggio sembra deluso. Resta un momento bloccato, poi si gira e se ne va. Eccomi arrivato al cuore della storia, penso. Il tempo di immergermi nella narrazione. Davanti a me si dispiega una serie di eventi che si susseguono. Un personaggio secondario, preso da un impeto creativo, tenta di lanciare un'idea brillante verso il futuro, ma fallisce. Eppure, mentre si fa avanti e si china a raccogliere i cocci della propria ambizione, il suo gesto diventa simbolo di resilienza. Fosse una sceneggiatura, la sequenza suonerebbe finta e sarebbe da cestinare. Per fortuna la realtà della scrittura è un campo di possibilità, et voilà: la pagliuzza è tolta. Pratica narrativa espletata. Torniamo a parlare di sceneggiatura. Siamo qui per questo.
Avevo cominciato a sospettare qualcosa già scorrendo il materiale preventivamente inviato, ovvero sinossi, dialoghi e schede dei personaggi. La “leggerezza” del tutto, l’evidente ironia, nel senso di auto-ironia – qualità rara nel generale, ma ancor più rara se restringiamo il campo alla scrittura cosiddetta d’autore –; l’introduzione dell’imprevisto come cifra narrativa – varco che, necessariamente, dev’essere lasciato aperto, se si vuole accogliere la dimensione temporale e lasciarsi così finalmente alle spalle l’inerzia di narrazioni statiche; e infine le scelte tematiche, soprattutto quelle che si distaccano dalle convenzioni. Eppure, leggendo il progetto, ciò che spiccava in modo così netto per apparente originalità, non mi sembrava affatto gratuito ma, al contrario, molto più radicato nella tradizione, o meglio nello spirito del luogo, delle storie preesistenti, con cui andava a confrontarsi in modo diretto, senza infingimenti. Una leggerezza dotata di solide fondamenta dunque. Nel paradosso, il sospetto si era rafforzato.
Ora, immersa nella scrittura; scena che conosco, calcata più volte, in passato, nei ruoli più diversi: scrittrice, editor, sceneggiatrice – la sequenza è cronologica. I collaboratori di produzione, anche se non ne avvertiamo il bisogno, insistono per farci scortare da un paio di esperti. Fidarsi è bene, dicono, ma non fidarsi è sempre meglio. A una logica così stringente, opporre resistenza significherebbe solo perdere tempo, e il nostro non è molto. Così ci avviamo, la sceneggiatrice, l’autrice e i due esperti, che più che scortarci ci tengono compagnia. Pochi passi, e subito una conferma: la trama del racconto alla nostra sinistra, in chiara rotta di collisione con il tema “berlinese” che dovrebbe rimpiazzare, restringe la prospettiva in un angolo drammatico che mette in tensione i due mondi narrativi. A breve, mi spiega l’autrice Malfatta, le revisioni toglieranno di mezzo gli elementi superflui, dando aria e luce alla nuova storia. Devo dire che un po’ mi dispiace, aggiunge, perché il contrasto è interessante. Concordo. Ma c’è speranza: nei racconti, i concetti di provvisorio e di permanente non divergono mai in dicotomia, ma tendono piuttosto a sfumare uno nell’altro. Breve periplo della trama. Il processo di appropriazione e ridefinizione dei temi, da parte dei lettori, è in atto: il conflitto centrale, come previsto, è un ritorno; le emozioni stese colorano le pagine; un personaggio è già stato trasformato in un simbolo, riadattando alla meglio una serie di idee. L’autrice me lo indica con soddisfazione. Il progetto prevede la libertà creativa, mi spiega, anzi la incoraggia. Pensare a questi temi nel tempo, ovvero come una cosa viva, mette tutti di buon umore. Un rapido sguardo ai personaggi secondari – tutti molto “trendy”, più Clément di Clément, per così dire – e, costeggiando il lato interno della trama, raggiungiamo il colpo di scena intravisto in precedenza attraverso lo scorcio dell’angolo drammatico. Qui la scrittura si trasforma e prende una piega dialettica. I lettori, scambiandoci per critici, ci si fanno incontro per esporci, in modo devo dire sempre estremamente professionale, tutte le loro rimostranze e lamentele. Senza inquietudine, chiarisco l’equivoco. Ah!, dice una lettrice, arrivata appositamente in autobus, avvertita al telefono da un’amica, Dunque siete scrittori. No signora, puntualizzo, Solo narratori. E allora quel che avete scritto lo dovete pubblicare! Certo, dico, lo farò. È quel che faccio sempre.
Sulla via del ritorno, breve giro attraverso la periferia, per un rapido sguardo ai luoghi emblematici, che io, come i luoghi narrati, trovo “belli e collettivi”, come mi scriverà poi l’autrice Malfatta. Anch’io li trovo belli. “Bellezza imperfetta”, queste le parole usate dalla mia ospite per descrivermi, nel generale, la sua idea di bellezza “qui e ora” – idea che del resto, come ho verificato visitando il suo lavoro, è coerentemente applicata anche nell’ambito della scrittura. Di nuovo concordo! C’è di che preoccuparsi. Come diceva un grande così grande che non c’è nemmeno bisogno di citarlo: “Se è una bella giornata esco sempre con l’ombrello. Potrebbe piovere.”
Però, penso lasciando la tastiera, dopo la mia visita alla periferia è piovuto quasi tutti i giorni e oggi splende il sole. In ogni caso il problema non si pone. L’ombrello non lo porto nemmeno quando piove.
Ceci n’est pas une scénographie.
Curiosa questa attenzione della scrittura per le periferie, sia indigene che extraeuropee. Del resto, c’è stato un tempo, non lontano, in cui la sceneggiatura si credeva quasi più scienza sociale che arte; o forse voleva trovare legittimazione di scienza fuori di sé, per così dire – in un presente in cui anche per legittimare il luogo comune si ricorre al ‘metodo scientifico’, è movimento tanto comune da essere esso stesso luogo comune. Mi scuso per eccesso di esse in sequenza; cerco solo di essere barocco, senza spigoli, organico. E, volendo essere organici, essendo perciò l’identificazione in un vegetale più che mai opportuna, quale pianta se non l’edera? che, avendone la possibilità, è pianta anche prospettica. Ciò detto, procediamo con l’intarsio.
Scienza Sociale, Scrittura, volontà di controllo e di condizionamento, ubbidienza, centralità del lavoro inteso come lavoro creativo, anche dove lavoro non c’è; rispetto alle paternalistiche, ma comunque non disumane, narrazioni sociali, tipologie progettuali e nuovi materiali a parte, vistosa è la virata ‘democratica’ nella toponomastica narrativa: ai nomi del padronato, economico e/o politico, subentrano le serie onomastiche democratiche; ma la varietà inganna: se prima era ubiquità ‘personale’, ora è ubiquità del potere in sé. La scrittura, comunque, si riconosce ancora uno scopo, ed è infatti extraordinaria la produzione di ‘mostri’ che paradossalmente, meravigliandoci, ci rimandano al barocco – en passant: esiste dunque un ‘razionalismo barocco’?; nel senso di cui sopra, credo di sì. Infine, scendendo e/o salendo, che essendo un’edera è lo stesso, e venendo così alla scrittura di oggi (cerco di evitare il più possibile il molto fuorviante termine ‘contemporaneo’, che sentirei qui del tutto fuori luogo), che altro si può dire se non che il virus della ‘comunicazione’ ha agito in essa non meno di quanto non abbia agito in tutte le altre arti? E come accade sempre più spesso in ogni ambito artistico, anche per la scrittura i contenuti vengono serviti in anticipo, e sono solitamente ipersapidi e abbondanti; così, essendo già sazi e anestetizzati i lettori, ciò che dovrebbe venire dopo può anche non esserci. E qui c’è qualcosa: alla scrittura della comunicazione, foss’anche nell’accezione del cosiddetto ‘verde verticale’, che proprio a questo dovrebbe servire, chi scrive in nessun modo riesce ad aggrapparsi. Tutto mi scivola. Bello o brutto non è rilevante. Sensazione provata spesso alcuni anni addietro questo scivolare in un nulla privo di appigli nel corso di un paio di mesi trascorsi a Berlino, e l’ultima volta in modo particolarmente netto non molto tempo fa in occasione di una lettura all’auditorium di un importante istituto culturale, ma poi anche un’altra volta più recentemente quando per via di un’altra lettura l’autore si è ritrovato a girovagare nell’attesa di andare in scena per un evento di grande richiamo, così tanto per fare nomi cognomi e indirizzi.
Voilà!, signore e signori e tutti gli altri generi vari. L’oggetto c’è, voi tutti lo vedete. Eppure non c’è! Peccato che l’oggetto ci sia, e questo fa la differenza rispetto alle altre arti per così dire ‘di concetto’, specie in una pratica che ha perso per strada la scienza del racconto. Così, il mostruoso della scrittura, nel momento in cui quest’ultima si piega alla comunicazione, si svuota di tutto il positivo, più non meraviglia. E senza meraviglia, né bellezza né bruttezza.
Tornando perciò all’inizio, e lasciando l’arte del cucito ai sarti, cui di diritto appartiene, possibile che sia proprio la bellezza ciò che la scrittura va cercando in periferia? E se, come credo, è così, perché questo? Ricerca di ‘forma nell’informe’, per citare Tafuri. Ma è possibile progettare l’informe? Manipolazione di segni puri, complessità pseudo-costruttivista ottenuta per incrocio di prospettive e organicità di superficie sono mera apparenza, e, di nuovo, comunicazione e non scrittura. Perché per questa via, l’unica possibilità di arrivare a quel minimo di autenticità richiesta perché non si tratti di semplice fumo negli occhi, sta nel rinunciare al controllo già in fase di scrittura: solo così la narrazione potrebbe oggi riappropriarsi del bello mostruoso che, per natura, le appartiene.
Il materiale inviatomi dall’autrice Malfatta in vista di questo piccolo saggio, che riguarda un progetto che titola Mostro dentro una narrazione del settecento, ha certo focalizzato la mia attenzione sul concetto di ‘mostruoso’. Ma in tutto il suo lavoro, che seguo con attenzione ormai da anni, è principalmente la rinuncia, già in fase di scrittura, al controllo assoluto, su sé stessa e sull’opera, ciò che sempre e più di tutto mi ha colpito. Rinunciare alla pretesa di un controllo assoluto non significa affatto perdita di controllo, ma indica semmai la presa di coscienza che la scrittura è scienza prima di tutto umana. Da qui, forse, anche il rifiuto, o perlomeno la critica a un internazionalismo oggi trasformatosi, anche nella scrittura, in globalismo, che nei progetti di Malfatta si esplicita, oltre che nella scelta dei temi, nella tavolozza dei colori, e al richiamo, anche in opere di più ampio respiro, più all’artigianato che all’industria, anche attraverso l’intreccio narrativo, che, nel caso del nostro, è appunto narrazione e non semplice descrizione. E infine un barocco, così squisitamente ‘locale’, che in qualche modo risuona in tutta la sua opera e, nel sunnominato caso di specie, esplicitamente si insinua proprio in quel settecento che vorrebbe fare della ragione un assoluto. Del resto, i rapporti più profondi nascono solo dai contrasti.
Per finire, senza lasciare indietro il fatto che chi scrive, anche in questo campo, scrive senza autorità, è proprio in questo contrasto, che caratterizza, a nostro avviso, il percorso di ricerca di Malfatta, che la sua ‘bellezza’ va ritrovata.
Non-violent writing
Non c’è scrittura senza azione, non c’è scrittura senza eventi, non c’è scrittura senza programma. Di conseguenza, non c’è scrittura senza violenza. (Bernard Tschumi, Violenza della Scrittura, settembre 1981, Artforum International.) L’obbiettività non esiste, e per questo siamo faziosi – così la Comunicazione.
La scrittura non è comunicazione.
Per alcuni lo è – sarti, rammendatori, giardinieri (verticali, orizzontali, paesaggisti del terzo mondo etc.).
Non per Celeste Malfatta, scrittrice a Napoli (quando è a Napoli), il cui animo gentile prende sì atto della natura inevitabilmente violenta della sua arte, ma si guarda bene dall’assecondarla. Da qui il suo viscerale rifiuto della Prospettiva.
Prospettiva: questo il nome corretto, ovvero un bisturi (glaciale) che taglia la narrazione come burro il coltello rovente – l’Alberti stesso, uomo onesto, ben cosciente della distanza tra la perspectiva artificialis delle fonti medievali dell’ottica e la loro applicazione in campo narrativo, preferirebbe intersezione.
Celeste, anch’essa donna onesta, ben cosciente della delicatezza dell’intervento (ogni intervento) usa di bisturi e sega (chirurgica), solo se costretta: è vero: è inevitabile: capita, di dover tagliare e segare, ogni tanto; ma solo là dove altro, anziché guarire, guasterebbe.
Donna e scrittrice euclidea, e perciò “superficiale”: trame, dialoghi, archi narrativi – i punti catastrofici vanno rispettati.
Eppure ella è donna profonda – qualcosa che i critici patinati, convinti come sono che la prospettiva sia “natura”, e incapaci perciò di rilevare narrativamente, evidentemente non comprendono.
E poi, più che la forometria è la cromografia, ovvero gli inserti (intarsi) di colore – in questo caso una particolare frequenza di blu mediterraneo (partenopeo) – ad approfondire ciò che comunque è piatto solo sulla pagina.
In sintesi estrema, ecco una scrittura gentile, irenica e barocca.
Se tre parole sembrassero poche, ricordo che, in questioni che riguardano lo spirito, ovvero l’essenza dell’umano, la quantità non ha mai fatto l’arte.