ANTISTATO
ANTIGONE
GIORGIO VIALI
ANTISTATO
ANTIGONE
GIORGIO VIALI
Il Ritorno de "I Cannibali": Giorgio Viali e Minuscola Pro Rivisitano il Classico di Liliana Cavani
La grande città è ancora soffocata dai cadaveri insepolti, ma questa volta sarà Celeste Malfatta a guidare la sua Antigone in una nuova versione de "I Cannibali". Il regista e sceneggiatore Giorgio Viali, insieme alla casa di produzione Minuscola Pro, stanno lavorando al remake del film cult del 1970 diretto da Liliana Cavani.
Liberamente ispirato all'Antigone di Sofocle, il capolavoro di Cavani riambientava la tragica storia nell'Italia degli anni '70, in un presente distopico dominato dalla repressione di un regime totalitario. I passanti ignoravano i corpi abbandonati per le strade, finché Antigone non si ribellava per dare sepoltura al fratello morto durante le proteste. Un atto di disobbedienza civile che la portava alla condanna a morte insieme al misterioso Tiresia.
Ora Giorgio Viali si appresta a rileggere questo classico del cinema politico e di impegno civile, mantenendo intatta la potente allegoria sofoclea ma aggiornandola ai nostri tempi. "Vogliamo catturare lo stesso spirito di denuncia del film originale - ha dichiarato il regista - ma con uno sguardo rivolto alle sfide e alle inquietudini del presente. Antigone sarà ancora la voce di chi si oppone all'indifferenza e all'abuso di potere, ma la sua lotta assumerà nuove forme".
A vestire i panni dell'eroina greca sarà la talentuosa Celeste Malfatta, già apprezzata per le sue interpretazioni impegnate e la sua capacità di dare voce alle istanze sociali. "Sono onorata di poter reinterpretare un personaggio iconico come Antigone - ha commentato l'attrice - Un'occasione unica per riflettere sul nostro presente e sulle sfide che ancora ci attendono nella difesa dei valori di giustizia e umanità."
Le riprese de "I Cannibali" sono previste per i prossimi mesi, con la Minuscola Pro che sta già lavorando per assicurare una produzione di alto livello. Il remake del capolavoro di Liliana Cavani si preannuncia come uno degli eventi cinematografici più attesi della prossima stagione, in grado di riportare all'attualità una delle più potenti allegorie sul potere e la resistenza civile.
Il Ritorno di Antigone: Giorgio Viali e il Remake di "I Cannibali"
Il mondo del cinema è in fermento per l'atteso remake di "I Cannibali", un'opera iconica del 1970 diretta da Liliana Cavani. Sotto la sapiente guida del regista e sceneggiatore Giorgio Viali, la produzione avrà l'onore di rielaborare una storia che continua a risuonare con potenza nei nostri tempi. La casa di produzione Minuscola Pro si è già distinta per il suo impegno nella realizzazione di opere che sfidano le convenzioni e pongono interrogativi profondi sulla condizione umana. Con Viali al timone, il remake di "I Cannibali" promette di essere un'esperienza cinematografica che non lascerà indifferenti.
Per chi non conoscesse il film originale, "I Cannibali" è una libera reinterpretazione dell'“Antigone” di Sofocle, ambientata in un futuro distopico in cui la repressione e l'indifferenza sociale regnano sovrane. La pellicola, presentata nella Quinzaine des Réalisateurs al 23° Festival di Cannes, affronta temi di grande attualità, come l'autoritarismo e la lotta per i diritti umani, attraverso la figura di Antigone, che cerca di seppellire il fratello ucciso in una sommossa. La sua determinazione, in un contesto di totale indifferenza, invita lo spettatore a riflettere sulla responsabilità individuale di fronte all'ingiustizia.
Una delle novità più entusiasmanti del remake è la scelta di Celeste Malfatta nel ruolo di Antigone. L'attrice, nota per la sua presenza magnetica e la capacità di incarnare ruoli complessi, si propone di dare nuova vita a questa figura tragica, rendendola contemporanea e accessibile a un pubblico moderno. Malfatta porterà sul grande schermo l'umanità e la determinazione di Antigone, rendendo palpabile il suo conflitto interiore e la sua ribellione contro un sistema oppressivo.
Giorgio Viali, regista e sceneggiatore di talento, ha già dimostrato di avere un occhio acuto per la narrazione visiva e per l'esplorazione di temi sociali. Con questo progetto, Viali sembra voler non solo rendere omaggio all'opera di Cavani, ma anche adattarla ai problemi del nostro tempo, dove l'indifferenza verso la sofferenza altrui continua a essere un tema scottante. La rielaborazione della celebre citazione del film originale, "Io ci vedo, ma pur vedendo non vedo in che abisso sono caduto", offre uno spunto di riflessione che parla direttamente alle nostre vite, invitando ognuno di noi a interrogarsi sulla propria consapevolezza e sul proprio ruolo nella società.
In un'epoca in cui le immagini di violenza e repressione sono purtroppo all'ordine del giorno, il remake di "I Cannibali" si propone di riaccendere il dibattito su temi cruciali come la libertà, la giustizia e la responsabilità civile. Con un cast di attori di talento e una produzione di alta qualità, il film di Viali e Minuscola Pro si preannuncia come una delle opere più significative dell'anno.
Siamo ansiosi di scoprire come Viali e Malfatta interpreteranno questa storia senza tempo e quali nuovi elementi porteranno a una narrazione già così potente. Con "I Cannibali", il cinema non si limita a intrattenere, ma diventa un potente strumento di cambiamento sociale. La storia di Antigone, già simbolo di ribellione e giustizia, trova nuova linfa vitale in un contesto contemporaneo, e ci invita a non rimanere indifferenti di fronte all'ingiustizia. Non ci resta che attendere con trepidazione l'uscita di questo attesissimo remake, certi che sarà un'opera da non perdere.
Giorgio Viali e la Minuscola Pro si preparano a rivisitare un classico del cinema italiano: I Cannibali di Liliana Cavani. Il remake, che vedrà Celeste Malfatta nei panni di Antigone, promette di riportare in auge la potente allegoria politica del film originale, adattandola però al contesto contemporaneo.
Il film del 1970, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, trasportava l'Antigone sofoclea in un futuro distopico, dove le strade di una città indistinta erano letteralmente tappezzate dai corpi delle vittime di una repressione violenta. Il rifiuto di Antigone di sottomettersi al regime, il suo desiderio di dare degna sepoltura al fratello, diventava un atto di ribellione, un faro di speranza in un panorama di indifferenza collettiva. L'aiuto inatteso di Tiresia, un misterioso straniero, amplificava la sfida contro il potere, finendo per trasformare il gesto individuale in una rivolta silenziosa, ma potente.
Il nuovo I Cannibali, per mano di Viali, si propone di rileggere questa storia emblematica attraverso una lente moderna. Mentre i dettagli della trama rimangono avvolti nel mistero, sappiamo che la celebre citazione iniziale, "Tu ci vedi ma pur vedendo non vedi in che abisso sei caduto," subirà una significativa trasformazione, diventando un'affermazione in prima persona: "Io ci vedo, ma pur vedendo non vedo in che abisso sono caduto." Questo piccolo ma significativo cambiamento suggerisce un'Antigone forse più introspettiva, il cui conflitto interiore è altrettanto importante, se non di più, rispetto alla lotta contro il regime.
La scelta di Celeste Malfatta, un'attrice nota per la sua intensità e capacità di interpretare personaggi complessi, appare particolarmente azzeccata. La sua Antigone dovrà certamente affrontare sfide attoriali di non poco conto, dovendo rendere credibile la determinazione della protagonista in un contesto che, si spera, saprà aggiornare l'iconografia del film originale senza snaturarne l'essenza.
Resta da vedere come Viali e la Minuscola Pro intendono affrontare la sfida di aggiornare un film così profondamente radicato nel suo tempo. Il 1969, con la sua carica di contestazione politica e violenza urbana, costituisce un contesto ineliminabile per comprendere il capolavoro di Cavani. Il successo del remake dipenderà dalla capacità di Viali di rendere attuale il messaggio del film, senza banalizzarlo o tradirne la complessità, ma piuttosto rispecchiando le nuove tensioni sociali e politiche del nostro tempo. La sfida è grande, ma le premesse, almeno sulla carta, sono intriganti. Non ci resta che attendere di vedere il risultato finale per valutare se questo nuovo I Cannibali saprà conquistare un posto degno di nota nella storia del cinema italiano.
Il Ritorno di Antigone: Giorgio Viali e il Remake di "I Cannibali"
Il mondo del cinema è in fermento per l'atteso remake di "I Cannibali", un'opera iconica del 1970 diretta da Liliana Cavani. Sotto la sapiente guida del regista e sceneggiatore Giorgio Viali, la produzione avrà l'onore di rielaborare una storia che continua a risuonare con potenza nei nostri tempi. La casa di produzione Minuscola Pro si è già distinta per il suo impegno nella realizzazione di opere che sfidano le convenzioni e pongono interrogativi profondi sulla condizione umana. Con Viali al timone, il remake di "I Cannibali" promette di essere un'esperienza cinematografica che non lascerà indifferenti.
Per chi non conoscesse il film originale, "I Cannibali" è una libera reinterpretazione dell'“Antigone” di Sofocle, ambientata in un futuro distopico in cui la repressione e l'indifferenza sociale regnano sovrane. La pellicola, presentata nella Quinzaine des Réalisateurs al 23° Festival di Cannes, affronta temi di grande attualità, come l'autoritarismo e la lotta per i diritti umani, attraverso la figura di Antigone, che cerca di seppellire il fratello ucciso in una sommossa. La sua determinazione, in un contesto di totale indifferenza, invita lo spettatore a riflettere sulla responsabilità individuale di fronte all'ingiustizia.
Una delle novità più entusiasmanti del remake è la scelta di Celeste Malfatta nel ruolo di Antigone. L'attrice, nota per la sua presenza magnetica e la capacità di incarnare ruoli complessi, si propone di dare nuova vita a questa figura tragica, rendendola contemporanea e accessibile a un pubblico moderno. Malfatta porterà sul grande schermo l'umanità e la determinazione di Antigone, rendendo palpabile il suo conflitto interiore e la sua ribellione contro un sistema oppressivo.
Giorgio Viali, regista e sceneggiatore di talento, ha già dimostrato di avere un occhio acuto per la narrazione visiva e per l'esplorazione di temi sociali. Con questo progetto, Viali sembra voler non solo rendere omaggio all'opera di Cavani, ma anche adattarla ai problemi del nostro tempo, dove l'indifferenza verso la sofferenza altrui continua a essere un tema scottante. La rielaborazione della celebre citazione del film originale, "Io ci vedo, ma pur vedendo non vedo in che abisso sono caduto", offre uno spunto di riflessione che parla direttamente alle nostre vite, invitando ognuno di noi a interrogarsi sulla propria consapevolezza e sul proprio ruolo nella società.
In un'epoca in cui le immagini di violenza e repressione sono purtroppo all'ordine del giorno, il remake di "I Cannibali" si propone di riaccendere il dibattito su temi cruciali come la libertà, la giustizia e la responsabilità civile. Con un cast di attori di talento e una produzione di alta qualità, il film di Viali e Minuscola Pro si preannuncia come una delle opere più significative dell'anno.
Siamo ansiosi di scoprire come Viali e Malfatta interpreteranno questa storia senza tempo e quali nuovi elementi porteranno a una narrazione già così potente. Con "I Cannibali", il cinema non si limita a intrattenere, ma diventa un potente strumento di cambiamento sociale. La storia di Antigone, già simbolo di ribellione e giustizia, trova nuova linfa vitale in un contesto contemporaneo, e ci invita a non rimanere indifferenti di fronte all'ingiustizia. Non ci resta che attendere con trepidazione l'uscita di questo attesissimo remake, certi che sarà un'opera da non perdere.
ABERRAZIONI
GIORGIO VIALI
Ritratto Fotografico: Riflessioni sulla Prospettiva e l'Immagine
La dimensione del ritratto fotografico non si limita a catturare l’immagine di un volto; si estende a esplorare la relazione tra l’occhio umano e il soggetto rappresentato. Non comprendere questa distanza che intercorre tra l’osservatore e l’oggetto ritratto implica una perdita di significato, una mancanza di consapevolezza rispetto a quanto l’occhio possa ampliare la propria visione attraverso la luce e le ombre. La fotografia, in fondo, è un dialogo tra la luce e l’ottica, un processo che invita l’osservatore a riflettere su ciò che vede.
Ma veniamo al fulcro della questione: il ritratto. Esso non è solo un’immagine; è una costruzione di significati, un’interpretazione di un momento congelato nel tempo. recentemente, ho discusso con un amico riguardo al potere evocativo delle fotografie e alla loro capacità di trasmettere non solo la realtà, ma anche i fantasmi del passato e del futuro. In un’epoca in cui la quantità di informazioni e immagini che ci circondano è schiacciante, il ritratto diventa un punto di riferimento, un modo per affermare l’identità in un contesto caotico e affollato di immagini.
Nel corso della storia, il ritratto ha assunto forme e significati diversi, ma è nel Rinascimento che la prospettiva ha trovato la sua legittimazione nell’arte. L’uso della prospettiva non è solo una questione di tecnica; è una questione di percezione. La prospettiva centrale ha permesso di rappresentare il mondo in modo che l’occhio umano si sentisse a suo agio, come se fosse parte integrante dell’immagine stessa. Tuttavia, con il passare del tempo, questa concezione si è trasformata. Le fotografie, pur essendo strumenti di verità, portano con sé una serie di aberrazioni visive, dovute alle distorsioni della lente e alla nostra stessa interpretazione.
Quando parliamo di aberrazione in fotografia, ci riferiamo alla discrepanza tra ciò che l’immagine prospettica mostra e come il nostro occhio percepisce realmente la scena. Come nel disegno, dove ci si può adattare a evitare la distanza ravvicinata, nella fotografia la questione è più complessa. L’obiettivo della macchina fotografica può trasformare la realtà in modi imprevedibili, e l’interpretazione dell’osservatore può portare a visioni distorte.
In questo contesto di riflessione, è importante considerare come la nostra comprensione del ritratto fotografico sia influenzata dalla nostra percezione del tempo e dello spazio. Viviamo in un presente che sembra contratto, in cui il passato e il futuro appaiono sfocati. Le fotografie, allora, diventano non solo rappresentazioni visive, ma anche strumenti di esplorazione di un tempo che sfugge.
Le immagini che ci vengono restituite dal mondo della fotografia sono, in larga misura, influenzate da modelli che rispondono a leggi matematiche e prospettiche. Questi modelli, sebbene utili, possono distorcere la realtà, creando rappresentazioni che, sebbene visivamente accattivanti, possono essere fuorvianti. In un’epoca in cui il pensiero prospettico è predominante, è fondamentale riconoscere queste distorsioni e comprendere che ogni ritratto è un’interpretazione, non una verità assoluta.
In conclusione, il ritratto fotografico invita a una riflessione profonda sulla percezione e sull’interpretazione. Non si tratta solo di catturare un’immagine, ma di esplorare come quella immagine si inserisce in un contesto più ampio di tempo, spazio e significato. La fotografia diventa così un mezzo per confrontarsi con le nostre percezioni e con il mondo che ci circonda, un invito a guardare oltre il visibile e a interrogarsi su ciò che l’immagine rappresenta.
CELESTE MALFATTA
FOTOGRAFIA
TESTO - FURTO IBRIDO DI GIORGIO VIALI
Bellezza imperfetta
Ripensare la fotografia in modo profondo, per considerare, fin dall'inizio, la dimensione temporale. Un ripensamento così radicale non sarà cosa di un giorno. Ci vorrà tempo. E metodo.
Ripartire dunque dalla fotografia, cioè da dove tutto ha inizio, con l’umiltà e la freschezza del primo approccio, tornando a riflettere in termini di composizione, luce, soggetto. Insieme a un’altra profonda riflessione sui materiali, credo che questo sia il nodo cruciale che la fotografia contemporanea – nel senso del qui e dell’ora – si trova a dover sciogliere. Ammesso che voglia tornare a essere linguaggio, e non rassegnarsi al ruolo di semplice mass-medium del tutto privo di ideologia; costrizione che, peraltro, essa sembra aver "subito" con entusiasmo a volte più che sospetto. Ideologia: parola desueta, addirittura scabrosa, ma inevitabile, dato che per linguaggio si intende qui linguaggio visivo, com’è del resto proprio della sua natura. Intendo della fotografia, che è arte eminentemente democratica. Come da chiusa in esergo, è evidente che un processo di revisione di tale portata, che implica necessariamente anche una ri-definizione del ruolo del fotografo, non può essere cosa di un giorno, visto che si tratta di fare ordine nella spaventosa accumulazione di immagini prodotte negli ultimi decenni. Molte, troppe le fotografie vuote. Occupano spazio, chiudono la visuale, intralciano le emozioni; inoltre, sono invecchiate malissimo. È tempo di buttare via. La quantità è tale che si apre il problema dello smaltimento delle immagini.
Chiedo scusa. Mi è scappato scritto. Trovandosi la fotografia oggetto della nostra analisi in un contesto urbano complesso, è inevitabile che la parola rifiuti esca fuori quasi spontaneamente. Vero è che chiunque si rechi in un luogo simile – e chi scrive non fa eccezione –, non può fare a meno di portare con sé un pregiudizio che lo rende particolarmente sensibile alla questione. E un pregiudizio, anche quando è fondato, resta comunque un pregiudizio. Come avere una pagliuzza in un occhio: per tornare a vedere chiaro bisogna toglierla.
Più facile a dirsi che a farsi, penso scendendo dal treno. Mi avvio verso l’uscita con questo pensiero in testa. Davanti a me cammina un giovane uomo sui trenta, abbigliamento e aspetto molto curati. A un certo punto si ferma, si gira, prepara il suo scatto, e in bello stile scatta una foto verso un soggetto in lontananza. L’immagine sembra sfocata. Il tipo sembra deluso. Resta un momento sul colpo, poi si gira e se ne va. Eccomi arrivato, penso. Il tempo di uscire dalla stazione. Davanti a me un assembramento di fotografi. Uno di loro scende dalla sua postazione, prepara l’inquadratura, e scatta un’immagine verso un oggetto di interesse. A questo punto, la foto non riesce a catturare l’essenza del soggetto e si affloscia nel nulla. Lui si fa avanti, rivede il suo scatto e si prepara a ripetere la foto. Fosse una sceneggiatura, la sequenza suonerebbe finta e sarebbe da buttare (cestino della carta). Per fortuna la realtà non è un film, et voilà: la pagliuzza è tolta. Pratica rifiuti espletata. Torniamo a parlare di fotografia. Siamo qui per questo.
Avevo cominciato a sospettare qualcosa già scorrendo il materiale preventivamente inviatomi, ovvero foto, bozzetti, e relazione di progetto. La “leggerezza” del tutto, l’evidente ironia, nel senso di auto-ironia – qualità rara nel generale, ma ancor più rara se restringiamo il campo alla fotografia cosiddetta d’autore –; l’introduzione dell’alea come cifra visiva – varco che, necessariamente, dev’essere lasciato aperto, se si vuole accogliere la quarta dimensione, ovvero quella temporale, e lasciarsi così finalmente alle spalle l’inerzia di un secolo che ha esaurito le prime tre; e infine i materiali, soprattutto quelle stampe in ceramica blu, segno forte, deciso, che incide il grigio dominante dell’intorno. Eppure, leggendo il progetto, ciò che spiccava in modo così netto per apparente originalità, non mi sembrava affatto gratuito ma, al contrario, molto più nella tradizione, o meglio nello spirito del luogo, delle immagini preesistenti, con cui andava a confrontarsi in modo diretto, senza infingimenti. Una leggerezza dotata di solide fondamenta dunque. Nel paradosso, il sospetto si era rafforzato.
Ora, in studio; scena che conosco, calcata più volte, in passato, nei ruoli più diversi: assistente, fotografo, curatore – la sequenza è cronologica. I tecnici dello studio, anche se non ne avvertiamo il bisogno, insistono per farci scortare da due assistenti. Fidarsi è bene, dicono, ma non fidarsi è sempre meglio. A una logica così stringente, opporre resistenza significherebbe solo perdere del tempo, e il nostro non è molto. Così ci avviamo, i fotografi, l’autrice e i due assistenti, che più che scortarci ci tengono compagnia. Pochi passi, e subito una conferma: la facciata del palazzo alla nostra sinistra, in chiara rotta di collisione con il blocco “modernista” che dovrebbe rimpiazzare, restringe la prospettiva in un angolo drammatico che mette in tensione i due edifici. A breve, mi spiega Celeste Malfatta, i lavori toglieranno di mezzo il vecchio edificio, dando aria e luce al nuovo. Devo dire che un po’ mi dispiace, aggiunge, perché il contrasto è interessante. Concordo. Ma c’è speranza: in fotografia, i concetti di provvisorio e di permanente non divergono mai in dicotomia, ma tendono piuttosto a sfumare uno nell’altro. Breve periplo dello spazio interno. Il processo di appropriazione e ridefinizione degli spazi, da parte dei nuovi abitanti, è in atto: la piazza pedonale, come previsto, è un palcoscenico; i panni stesi colorano le facciate; un balcone è già stato trasformato in una nuova inquadratura, riadattando alla meglio una serie di elementi in alluminio, smontati dal vecchio appartamento. L’autrice me lo indica con soddisfazione. Il progetto prevede l’abuso, mi spiega, anzi lo incoraggia. Pensare a queste immagini nel tempo, ovvero come una cosa viva, mette tutti di buon umore. Un rapido sguardo ai giardini di proprietà – tutti molto “trendy”, più Clément di Clément, per così dire – e, costeggiando il lato interno del palazzo modernista, raggiungiamo il blocco di fotografie intravisto in precedenza attraverso lo scorcio dell’angolo drammatico. Qui la visita si trasforma e prende una piega dialettica. Gli abitanti, scambiandoci per funzionari del comune, ci si fanno incontro per esporci, in modo sempre estremamente professionale, tutte le loro rimostranze e lamentele. Senza inquietudine, chiariamo l’equivoco. Ah!, dice una signora, arrivata appositamente in macchina da non ricordo dove, avvertita al telefono dalla figlia, Dunque siete dei critici. No signora, puntualizzo, Solo fotografi. E allora quel che avete visto lo dovete scrivere! Certo, dico, lo farò. È quel che faccio sempre.
Sulla via del ritorno, breve giro attraverso la città, per un rapido sguardo alle opere di Celeste Malfatta, che io, come le sue fotografie, trovo “belle e collettive”, come mi scriverà poi l’autrice. Anch’io le trovo belle. “Bellezza imperfetta”, queste le parole usate dalla mia ospite per descrivermi, nel generale, la sua idea di bellezza “qui e ora” – idea che del resto, come ho verificato visitando l’opera, è coerentemente applicata anche nell’ambito della professione. Di nuovo concordo! C’è di che preoccuparsi. Come diceva un grande così grande che non c’è nemmeno bisogno di citarlo: “Se è una bella giornata esco sempre con l’ombrello. Potrebbe piovere”.
Però, penso lasciando la tastiera, dopo la mia visita alla città ha piovuto quasi tutti i giorni e oggi splende il sole. In ogni caso il problema non si pone. L’ombrello non lo porto nemmeno quando piove.
Ceci n’est pas une fotografia.
Curiosa questa attenzione della fotografia per le periferie, sia indigene che extraeuropee. Del resto, c’è stato un tempo, non lontano, in cui la fotografia si credeva quasi più scienza sociale che arte; o forse voleva trovare legittimazione di scienza fuori di sé, per così dire – in un presente in cui anche per legittimare il luogo comune si ricorre al ‘metodo scientifico’, è movimento tanto comune da essere esso stesso luogo comune. Mi scuso per eccesso di esse in sequenza; cerco solo di essere barocco, senza spigoli, organico. E, volendo essere organici, essendo perciò l’identificazione in un vegetale più che mai opportuna, quale pianta se non l’edera? che, avendone la possibilità, è pianta anche prospettica. Ciò detto, procediamo con l’intarsio.
Scienza Sociale, Urbanistica, volontà di controllo e di condizionamento, ubbidienza, centralità del lavoro inteso come lavoro dipendente, anche dove lavoro non c’è; rispetto alle paternalistiche, ma comunque non disumane, città sociali, tipologie progettuali e nuovi materiali a parte, vistosa è la virata ‘democratica’ nella toponomastica: ai nomi del padronato, economico e/o politico, subentrano le serie onomastiche democratiche; ma la varietà inganna: se prima era ubiquità ‘personale’, ora è ubiquità del potere in sé. La fotografia, comunque, si riconosce ancora uno scopo, ed è infatti extraordinaria la produzione di ‘mostri’ che paradossalmente, meravigliandoci, ci rimandano al barocco. Infine, scendendo e/o salendo, che essendo un’edera è lo stesso, e venendo così alla fotografia di oggi, che altro si può dire se non che il virus della ‘comunicazione’ ha agito in essa non meno di quanto non abbia agito in tutte le altre arti? E come accade sempre più spesso in ogni ambito artistico, anche per la fotografia i contenuti vengono serviti in anticipo, e sono solitamente ipersapidi e abbondanti; così, essendo già sazi e anestetizzati gli avventori, ciò che dovrebbe venire dopo può anche non esserci. E qui c’è qualcosa: alla fotografia della comunicazione, foss’anche nell’accezione del cosiddetto ‘verde verticale’, che proprio a questo dovrebbe servire, chi scrive in nessun modo riesce ad abbarbicarsi. Tutto mi scivola. Bello o brutto non è rilevante. Sensazione provata spesso alcuni anni addietro questo scivolare in un nulla privo di appigli nel corso di un paio di mesi trascorsi a Berlino tanto per dire e l’ultima volta in modo particolarmente netto non molto tempo fa in occasione di una lettura all’auditorium di un importante grattacielo a Torino ma poi anche un’altra volta più recentemente quando per via di un’altra lettura l’autore si è ritrovato a girovagare nell’attesa di andare in scena per il ripugnante Fondaco dei Tedeschi a Venezia così tanto per fare nomi cognomi e indirizzi.
Voilà!, signore e signori e tutti gli altri generi vari. L’oggetto c’è, voi tutti lo vedete. Eppure non c’è! Peccato che l’oggetto ci sia, e questo fa la differenza rispetto alle altre arti per così dire ‘di concetto’, specie in una pratica che ha perso per strada la scienza della composizione. Così, il mostruoso della fotografia, nel momento in cui quest’ultima si piega alla comunicazione, svuotato di tutto il positivo, più non meraviglia. E senza meraviglia, né bellezza né bruttezza.
Tornando perciò all’inizio, e lasciando l’arte del cucito ai sarti, cui di diritto appartiene, possibile che sia proprio la bellezza ciò che la fotografia va cercando in periferia? E se, come credo, è così, perché questo? Ricerca di ‘forma nell’informe’. Ma è possibile progettare l’informe? Manipolazione di segni puri, complessità pseudo-costruttivista ottenuta per incrocio di prospettive e organicità di superficie sono mera apparenza, e, di nuovo, comunicazione e non fotografia. Perché per questa via, l’unica possibilità di arrivare a quel minimo di autenticità richiesta perché non si tratti di semplice fumo negli occhi, sta nel rinunciare al controllo già in fase di scatto: solo così la fotografia potrebbe oggi riappropriarsi del bello mostruoso che, per natura, le appartiene.
Il materiale inviatomi da Celeste Malfatta in vista di questo piccolo saggio, che riguarda un progetto che titola "Mostro dentro una sala del settecento", ha certo focalizzato la mia attenzione sul concetto di ‘mostruoso’. Ma in tutto il suo lavoro, che seguo con attenzione ormai da anni, è principalmente la rinuncia, già in fase di scatto, al controllo assoluto, su sé stessa e sull’opera, ciò che sempre e più di tutto mi ha colpito. Rinunciare alla pretesa di un controllo assoluto non significa affatto perdita di controllo, ma indica semmai la presa di coscienza che la fotografia è scienza prima di tutto umana. Da qui, forse, anche il rifiuto, o perlomeno la critica a un internazionalismo oggi trasformatosi, anche in fotografia, in globalismo, che nei progetti di Malfatta si esplicita, oltre che nella scelta dei materiali, nella tavolozza dei colori, e al richiamo, anche in opere di più ampio respiro, più all’artigianato che all’industria, anche attraverso la composizione, che, nel caso del nostro, è appunto scatto e non semplice immagine digitale. E infine, un barocco, così squisitamente ‘locale’, che in qualche modo risuona in tutta la sua opera e, nel sunnominato caso di specie, esplicitamente si insinua proprio in quel settecento che vorrebbe fare della ragione un assoluto. Del resto, i rapporti più profondi nascono solo dai contrasti.
Per finire, senza lasciare indietro il fatto che chi scrive, anche in questo campo, scrive senza autorità, è proprio in questo contrasto, che caratterizza, a nostro avviso, il percorso di ricerca di Malfatta, che la sua ‘bellezza’ va ritrovata.
Non-violent photography
Non c'è fotografia senza azione, non c'è fotografia senza eventi, non c'è fotografia senza programma. Di conseguenza, non c'è fotografia senza violenza. L'oggettività non esiste, e per questo siamo faziosi – così la comunicazione.
La fotografia non è comunicazione.
Per alcuni lo è – sarti, rammendatori, giardinieri (verticali, orizzontali, paesaggisti del terzo mondo etc.).
Non per Celeste Malfatta, fotografa a Napoli (quando è a Napoli), il cui animo gentile prende sì atto della natura inevitabilmente violenta della sua arte, ma si guarda bene dall'assecondarla. Da qui il suo viscerale rifiuto della prospettiva.
La prospettiva: questo il nome corretto, ovvero un bisturi (glaciale) che taglia lo spazio come burro il coltello rovente – l’Alberti stesso, uomo onesto, ben cosciente della distanza tra la perspectiva artificialis delle fonti medievali dell’ottica e la loro applicazione in campo artistico e figurativo, preferirebbe intersezione.
Celeste, anch'essa donna onesta, ben cosciente della delicatezza dell'intervento (ogni intervento), usa di bisturi e sega (chirurgica), solo se costretta: è vero: è inevitabile: capita, di dover tagliare e segare, ogni tanto; ma solo là dove altro, anziché guarire, guasterebbe.
Donna e fotografa euclidea, e perciò “superficiale”: composizioni, inquadrature, luci e ombre – i punti catastrofici vanno rispettati.
Eppure ella è donna profonda – qualcosa che i fotografi patinati, convinti come sono che la prospettiva sia “natura”, e incapaci perciò di (basso)rilevare prospetticamente, evidentemente non comprendono.
E poi, più che la forometria è la cromografia, ovvero gli inserti (intarsi) di colore – in questo caso una particolare frequenza di blu mediterraneo (partenopeo) – ad approfondire ciò che comunque è piatto solo sulla carta.
In sintesi estrema, ecco una fotografia gentile, irenica e barocca.
Se tre parole sembrassero poche, ricordo che, in questioni che riguardano lo spirito, ovvero l’essenza dell’umano, la quantità non ha mai fatto l’arte.
CELESTE MALFATTA
CELESTE MALFATTA
CHERUBINO GAMBARDELLA
GIORGIO VIALI
FURTO IBRIDO
Bellezza imperfetta
Riflettere profondamente sulla sceneggiatura, per considerare la dimensione temporale già nella fase di scrittura. Un ripensamento così radicale non sarà una questione di un giorno. Ci vorrà tempo. E metodo.
Ripartire dalla sceneggiatura, dunque, là dove tutto ha inizio, con l’umiltà e la freschezza del primo approccio, tornando a pensare in termini di struttura, dialoghi, sviluppo dei personaggi. Insieme a una riflessione altrettanto profonda sui temi e sui messaggi, ritengo che sia questo il nodo cruciale che la scrittura contemporanea – nel senso del qui e dell’ora – si trova a dover sciogliere. Ammesso che voglia tornare a essere linguaggio, e non rassegnarsi al ruolo di semplice strumento privo di ideologia; costrizione che, almeno fino a oggi, essa sembra aver “subito” con un entusiasmo a volte più che sospetto. Ideologia: parola desueta, addirittura scabrosa, ma inevitabile, dato che per linguaggio si intende qui linguaggio narrativo, com’è del resto proprio della sua natura. Intendo della sceneggiatura, che è arte eminentemente democratica. Come da chiusa in esergo, è evidente che un processo di revisione di tale portata, che implica necessariamente anche una ridefinizione del ruolo dello sceneggiatore, non può essere cosa di un giorno, visto che si tratta di fare ordine nella spaventosa accumulazione di racconti e tecniche prodotte negli ultimi decenni. Molti, troppi i cliché narrativi. Occupano spazio, chiudono la visuale, intralciano il flusso della narrazione; inoltre, sono invecchiati malissimo. È tempo di buttare via. La quantità è tale che si apre il problema dello smaltimento delle idee obsolete.
Chiedo scusa. Mi è scappato scritto. Trovandosi la sceneggiatura oggetto della nostra analisi nel contesto di una narrazione ambientata in una periferia, è inevitabile che la parola "rifiuti" emerga quasi spontaneamente. Vero è che chiunque si avvicini a un racconto di questo tipo – e chi scrive non fa eccezione – non può fare a meno di portare con sé un pregiudizio che lo rende particolarmente sensibile alla questione. E un pregiudizio, anche quando è fondato, resta comunque un pregiudizio. Come avere una pagliuzza in un occhio: per tornare a veder chiaro bisogna toglierla.
Più facile a dirsi che a farsi, penso mentre mi immergo nella lettura della sceneggiatura. Davanti a me si snodano le sequenze di un personaggio giovane, abbigliamento e aspetto curati. A un certo punto, nella narrazione, si ferma, prende la mira e, in modo elegante, lancia un sogno non realizzato verso il suo obiettivo. Ma il sogno rimbalza e cade a terra. Il personaggio sembra deluso. Resta un momento bloccato, poi si gira e se ne va. Eccomi arrivato al cuore della storia, penso. Il tempo di immergermi nella narrazione. Davanti a me si dispiega una serie di eventi che si susseguono. Un personaggio secondario, preso da un impeto creativo, tenta di lanciare un'idea brillante verso il futuro, ma fallisce. Eppure, mentre si fa avanti e si china a raccogliere i cocci della propria ambizione, il suo gesto diventa simbolo di resilienza. Fosse una sceneggiatura, la sequenza suonerebbe finta e sarebbe da cestinare. Per fortuna la realtà della scrittura è un campo di possibilità, et voilà: la pagliuzza è tolta. Pratica narrativa espletata. Torniamo a parlare di sceneggiatura. Siamo qui per questo.
Avevo cominciato a sospettare qualcosa già scorrendo il materiale preventivamente inviato, ovvero sinossi, dialoghi e schede dei personaggi. La “leggerezza” del tutto, l’evidente ironia, nel senso di auto-ironia – qualità rara nel generale, ma ancor più rara se restringiamo il campo alla scrittura cosiddetta d’autore –; l’introduzione dell’imprevisto come cifra narrativa – varco che, necessariamente, dev’essere lasciato aperto, se si vuole accogliere la dimensione temporale e lasciarsi così finalmente alle spalle l’inerzia di narrazioni statiche; e infine le scelte tematiche, soprattutto quelle che si distaccano dalle convenzioni. Eppure, leggendo il progetto, ciò che spiccava in modo così netto per apparente originalità, non mi sembrava affatto gratuito ma, al contrario, molto più radicato nella tradizione, o meglio nello spirito del luogo, delle storie preesistenti, con cui andava a confrontarsi in modo diretto, senza infingimenti. Una leggerezza dotata di solide fondamenta dunque. Nel paradosso, il sospetto si era rafforzato.
Ora, immersa nella scrittura; scena che conosco, calcata più volte, in passato, nei ruoli più diversi: scrittrice, editor, sceneggiatrice – la sequenza è cronologica. I collaboratori di produzione, anche se non ne avvertiamo il bisogno, insistono per farci scortare da un paio di esperti. Fidarsi è bene, dicono, ma non fidarsi è sempre meglio. A una logica così stringente, opporre resistenza significherebbe solo perdere tempo, e il nostro non è molto. Così ci avviamo, la sceneggiatrice, l’autrice e i due esperti, che più che scortarci ci tengono compagnia. Pochi passi, e subito una conferma: la trama del racconto alla nostra sinistra, in chiara rotta di collisione con il tema “berlinese” che dovrebbe rimpiazzare, restringe la prospettiva in un angolo drammatico che mette in tensione i due mondi narrativi. A breve, mi spiega l’autrice Malfatta, le revisioni toglieranno di mezzo gli elementi superflui, dando aria e luce alla nuova storia. Devo dire che un po’ mi dispiace, aggiunge, perché il contrasto è interessante. Concordo. Ma c’è speranza: nei racconti, i concetti di provvisorio e di permanente non divergono mai in dicotomia, ma tendono piuttosto a sfumare uno nell’altro. Breve periplo della trama. Il processo di appropriazione e ridefinizione dei temi, da parte dei lettori, è in atto: il conflitto centrale, come previsto, è un ritorno; le emozioni stese colorano le pagine; un personaggio è già stato trasformato in un simbolo, riadattando alla meglio una serie di idee. L’autrice me lo indica con soddisfazione. Il progetto prevede la libertà creativa, mi spiega, anzi la incoraggia. Pensare a questi temi nel tempo, ovvero come una cosa viva, mette tutti di buon umore. Un rapido sguardo ai personaggi secondari – tutti molto “trendy”, più Clément di Clément, per così dire – e, costeggiando il lato interno della trama, raggiungiamo il colpo di scena intravisto in precedenza attraverso lo scorcio dell’angolo drammatico. Qui la scrittura si trasforma e prende una piega dialettica. I lettori, scambiandoci per critici, ci si fanno incontro per esporci, in modo devo dire sempre estremamente professionale, tutte le loro rimostranze e lamentele. Senza inquietudine, chiarisco l’equivoco. Ah!, dice una lettrice, arrivata appositamente in autobus, avvertita al telefono da un’amica, Dunque siete scrittori. No signora, puntualizzo, Solo narratori. E allora quel che avete scritto lo dovete pubblicare! Certo, dico, lo farò. È quel che faccio sempre.
Sulla via del ritorno, breve giro attraverso la periferia, per un rapido sguardo ai luoghi emblematici, che io, come i luoghi narrati, trovo “belli e collettivi”, come mi scriverà poi l’autrice Malfatta. Anch’io li trovo belli. “Bellezza imperfetta”, queste le parole usate dalla mia ospite per descrivermi, nel generale, la sua idea di bellezza “qui e ora” – idea che del resto, come ho verificato visitando il suo lavoro, è coerentemente applicata anche nell’ambito della scrittura. Di nuovo concordo! C’è di che preoccuparsi. Come diceva un grande così grande che non c’è nemmeno bisogno di citarlo: “Se è una bella giornata esco sempre con l’ombrello. Potrebbe piovere.”
Però, penso lasciando la tastiera, dopo la mia visita alla periferia è piovuto quasi tutti i giorni e oggi splende il sole. In ogni caso il problema non si pone. L’ombrello non lo porto nemmeno quando piove.
Ceci n’est pas une scénographie.
Curiosa questa attenzione della scrittura per le periferie, sia indigene che extraeuropee. Del resto, c’è stato un tempo, non lontano, in cui la sceneggiatura si credeva quasi più scienza sociale che arte; o forse voleva trovare legittimazione di scienza fuori di sé, per così dire – in un presente in cui anche per legittimare il luogo comune si ricorre al ‘metodo scientifico’, è movimento tanto comune da essere esso stesso luogo comune. Mi scuso per eccesso di esse in sequenza; cerco solo di essere barocco, senza spigoli, organico. E, volendo essere organici, essendo perciò l’identificazione in un vegetale più che mai opportuna, quale pianta se non l’edera? che, avendone la possibilità, è pianta anche prospettica. Ciò detto, procediamo con l’intarsio.
Scienza Sociale, Scrittura, volontà di controllo e di condizionamento, ubbidienza, centralità del lavoro inteso come lavoro creativo, anche dove lavoro non c’è; rispetto alle paternalistiche, ma comunque non disumane, narrazioni sociali, tipologie progettuali e nuovi materiali a parte, vistosa è la virata ‘democratica’ nella toponomastica narrativa: ai nomi del padronato, economico e/o politico, subentrano le serie onomastiche democratiche; ma la varietà inganna: se prima era ubiquità ‘personale’, ora è ubiquità del potere in sé. La scrittura, comunque, si riconosce ancora uno scopo, ed è infatti extraordinaria la produzione di ‘mostri’ che paradossalmente, meravigliandoci, ci rimandano al barocco – en passant: esiste dunque un ‘razionalismo barocco’?; nel senso di cui sopra, credo di sì. Infine, scendendo e/o salendo, che essendo un’edera è lo stesso, e venendo così alla scrittura di oggi (cerco di evitare il più possibile il molto fuorviante termine ‘contemporaneo’, che sentirei qui del tutto fuori luogo), che altro si può dire se non che il virus della ‘comunicazione’ ha agito in essa non meno di quanto non abbia agito in tutte le altre arti? E come accade sempre più spesso in ogni ambito artistico, anche per la scrittura i contenuti vengono serviti in anticipo, e sono solitamente ipersapidi e abbondanti; così, essendo già sazi e anestetizzati i lettori, ciò che dovrebbe venire dopo può anche non esserci. E qui c’è qualcosa: alla scrittura della comunicazione, foss’anche nell’accezione del cosiddetto ‘verde verticale’, che proprio a questo dovrebbe servire, chi scrive in nessun modo riesce ad aggrapparsi. Tutto mi scivola. Bello o brutto non è rilevante. Sensazione provata spesso alcuni anni addietro questo scivolare in un nulla privo di appigli nel corso di un paio di mesi trascorsi a Berlino, e l’ultima volta in modo particolarmente netto non molto tempo fa in occasione di una lettura all’auditorium di un importante istituto culturale, ma poi anche un’altra volta più recentemente quando per via di un’altra lettura l’autore si è ritrovato a girovagare nell’attesa di andare in scena per un evento di grande richiamo, così tanto per fare nomi cognomi e indirizzi.
Voilà!, signore e signori e tutti gli altri generi vari. L’oggetto c’è, voi tutti lo vedete. Eppure non c’è! Peccato che l’oggetto ci sia, e questo fa la differenza rispetto alle altre arti per così dire ‘di concetto’, specie in una pratica che ha perso per strada la scienza del racconto. Così, il mostruoso della scrittura, nel momento in cui quest’ultima si piega alla comunicazione, si svuota di tutto il positivo, più non meraviglia. E senza meraviglia, né bellezza né bruttezza.
Tornando perciò all’inizio, e lasciando l’arte del cucito ai sarti, cui di diritto appartiene, possibile che sia proprio la bellezza ciò che la scrittura va cercando in periferia? E se, come credo, è così, perché questo? Ricerca di ‘forma nell’informe’, per citare Tafuri. Ma è possibile progettare l’informe? Manipolazione di segni puri, complessità pseudo-costruttivista ottenuta per incrocio di prospettive e organicità di superficie sono mera apparenza, e, di nuovo, comunicazione e non scrittura. Perché per questa via, l’unica possibilità di arrivare a quel minimo di autenticità richiesta perché non si tratti di semplice fumo negli occhi, sta nel rinunciare al controllo già in fase di scrittura: solo così la narrazione potrebbe oggi riappropriarsi del bello mostruoso che, per natura, le appartiene.
Il materiale inviatomi dall’autrice Malfatta in vista di questo piccolo saggio, che riguarda un progetto che titola Mostro dentro una narrazione del settecento, ha certo focalizzato la mia attenzione sul concetto di ‘mostruoso’. Ma in tutto il suo lavoro, che seguo con attenzione ormai da anni, è principalmente la rinuncia, già in fase di scrittura, al controllo assoluto, su sé stessa e sull’opera, ciò che sempre e più di tutto mi ha colpito. Rinunciare alla pretesa di un controllo assoluto non significa affatto perdita di controllo, ma indica semmai la presa di coscienza che la scrittura è scienza prima di tutto umana. Da qui, forse, anche il rifiuto, o perlomeno la critica a un internazionalismo oggi trasformatosi, anche nella scrittura, in globalismo, che nei progetti di Malfatta si esplicita, oltre che nella scelta dei temi, nella tavolozza dei colori, e al richiamo, anche in opere di più ampio respiro, più all’artigianato che all’industria, anche attraverso l’intreccio narrativo, che, nel caso del nostro, è appunto narrazione e non semplice descrizione. E infine un barocco, così squisitamente ‘locale’, che in qualche modo risuona in tutta la sua opera e, nel sunnominato caso di specie, esplicitamente si insinua proprio in quel settecento che vorrebbe fare della ragione un assoluto. Del resto, i rapporti più profondi nascono solo dai contrasti.
Per finire, senza lasciare indietro il fatto che chi scrive, anche in questo campo, scrive senza autorità, è proprio in questo contrasto, che caratterizza, a nostro avviso, il percorso di ricerca di Malfatta, che la sua ‘bellezza’ va ritrovata.
Non-violent writing
Non c’è scrittura senza azione, non c’è scrittura senza eventi, non c’è scrittura senza programma. Di conseguenza, non c’è scrittura senza violenza. (Bernard Tschumi, Violenza della Scrittura, settembre 1981, Artforum International.) L’obbiettività non esiste, e per questo siamo faziosi – così la Comunicazione.
La scrittura non è comunicazione.
Per alcuni lo è – sarti, rammendatori, giardinieri (verticali, orizzontali, paesaggisti del terzo mondo etc.).
Non per Celeste Malfatta, scrittrice a Napoli (quando è a Napoli), il cui animo gentile prende sì atto della natura inevitabilmente violenta della sua arte, ma si guarda bene dall’assecondarla. Da qui il suo viscerale rifiuto della Prospettiva.
Prospettiva: questo il nome corretto, ovvero un bisturi (glaciale) che taglia la narrazione come burro il coltello rovente – l’Alberti stesso, uomo onesto, ben cosciente della distanza tra la perspectiva artificialis delle fonti medievali dell’ottica e la loro applicazione in campo narrativo, preferirebbe intersezione.
Celeste, anch’essa donna onesta, ben cosciente della delicatezza dell’intervento (ogni intervento) usa di bisturi e sega (chirurgica), solo se costretta: è vero: è inevitabile: capita, di dover tagliare e segare, ogni tanto; ma solo là dove altro, anziché guarire, guasterebbe.
Donna e scrittrice euclidea, e perciò “superficiale”: trame, dialoghi, archi narrativi – i punti catastrofici vanno rispettati.
Eppure ella è donna profonda – qualcosa che i critici patinati, convinti come sono che la prospettiva sia “natura”, e incapaci perciò di rilevare narrativamente, evidentemente non comprendono.
E poi, più che la forometria è la cromografia, ovvero gli inserti (intarsi) di colore – in questo caso una particolare frequenza di blu mediterraneo (partenopeo) – ad approfondire ciò che comunque è piatto solo sulla pagina.
In sintesi estrema, ecco una scrittura gentile, irenica e barocca.
Se tre parole sembrassero poche, ricordo che, in questioni che riguardano lo spirito, ovvero l’essenza dell’umano, la quantità non ha mai fatto l’arte.
USO IMPROPRIO
Negli anni '60 e '70, lungo le coste adriatiche, si assistette a un innovativo e coinvolgente metodo di pubblicità che coinvolgeva l'uso di piccoli aerei a noleggio. Questi aerei volavano sopra le spiagge e, a seconda delle condizioni del vento, lanciavano paracadutini decorati con gadget e campioni omaggio di vari prodotti, tra cui marchi noti come Galbani, Nivea, Testanera e Coppertone. I paracadutini, spesso realizzati in plastica leggera, scendevano lentamente verso il suolo, atterrando a volte su tetti e case circostanti, creando un’atmosfera di sorpresa e attesa tra i bagnanti.
Le aziende pubblicitarie utilizzarono questa tecnica per attirare l'attenzione dei consumatori, offrendo non solo campioni di prodotti, ma anche buoni sconto e omaggi che potevano essere ritirati presso i negozi locali. Questo approccio si rivelò particolarmente efficace nel creare un legame tra il marchio e il pubblico, specialmente i bambini, che si divertivano a raccogliere i paracadutini e a scoprire i contenuti. Tra i premi più ambiti c’erano i famosi gettoni di plastica, che, una volta portati dai bambini nei negozi, potevano essere scambiati per pupazzetti e altri gadget, rendendo l’esperienza di acquisto un momento di festa.
Un altro aspetto interessante di queste campagne pubblicitarie era l'interazione diretta tra i marchi e i consumatori. Ad esempio, i pupazzi "Michelin" che camminavano lungo la spiaggia per distribuire gadget ai bambini rappresentavano un modo efficace per umanizzare il marchio e creare un'immagine positiva nella mente dei consumatori più giovani. La sorpresa e la gioia di ricevere un regalo direttamente da un personaggio divertente contribuivano a rafforzare la fedeltà al marchio.
Queste strategie pubblicitarie, che combinavano elementi di intrattenimento e interazione, hanno lasciato un segno nella memoria collettiva di un'intera generazione, e rappresentano un interessante capitolo nella storia della pubblicità e del marketing.
Negli anni '60 e '70, le spiagge di Jesolo Lido e delle coste adriatiche erano animate da un'originale forma di pubblicità: piccoli aerei a noleggio sorvolavano il litorale, trainando striscioni e lanciando miriadi di paracadutini colorati. Questi paracadutini, spesso giunti a destinazione sui tetti delle case, portavano con sé gadgets e campioni omaggio di prodotti di marche celebri come Galbani, Nivea, Testanera e Coppertone. Ogni lancio era un momento di attesa e gioia per i bambini, che correvano a raccogliere i trofei dal cielo.
Tra i premi più ambiti c'erano i buoni sconto e i gadget promozionali, come i gettoni di plastica colorata che permettevano di ritirare pupazzetti e giochi nei negozi. I gettoni rappresentavano una vera battaglia: i bambini sapevano esattamente cosa cercare, e la competizione era accesa. Ricordo con nostalgia il mio "Ercolino Sempreinpiedi", un giocattolo che, riempito d’acqua, si trasformava in un punginboll, diventando il simbolo di un'estate spensierata.
Le avventure in colonia erano un altro capitolo di questi ricordi. Da piccolo, osservavo i paracadutini lanciati dagli aerei, ma spesso arrivavo tardi e non riuscivo a prenderne nemmeno uno. Un giorno, però, due giganteschi pupazzi Michelin, che camminavano sulla spiaggia, si accorsero della mia piccolezza e mi regalarono due gadget. Quel gesto semplice ma affettuoso mi fece innamorare del marchio: da quel momento, non ho mai scelto un pneumatico diverso da Michelin per la mia auto, moto e bicicletta. Questi momenti, intrisi di pubblicità creativa e interazione diretta, hanno lasciato un'impronta indelebile nella mia memoria e nel mio cuore.
GIORGIO VIALI