CELESTE MALFATTA
FOTOGRAFIA
TESTO - FURTO IBRIDO DI GIORGIO VIALI
Bellezza imperfetta
Ripensare la fotografia in modo profondo, per considerare, fin dall'inizio, la dimensione temporale. Un ripensamento così radicale non sarà cosa di un giorno. Ci vorrà tempo. E metodo.
Ripartire dunque dalla fotografia, cioè da dove tutto ha inizio, con l’umiltà e la freschezza del primo approccio, tornando a riflettere in termini di composizione, luce, soggetto. Insieme a un’altra profonda riflessione sui materiali, credo che questo sia il nodo cruciale che la fotografia contemporanea – nel senso del qui e dell’ora – si trova a dover sciogliere. Ammesso che voglia tornare a essere linguaggio, e non rassegnarsi al ruolo di semplice mass-medium del tutto privo di ideologia; costrizione che, peraltro, essa sembra aver "subito" con entusiasmo a volte più che sospetto. Ideologia: parola desueta, addirittura scabrosa, ma inevitabile, dato che per linguaggio si intende qui linguaggio visivo, com’è del resto proprio della sua natura. Intendo della fotografia, che è arte eminentemente democratica. Come da chiusa in esergo, è evidente che un processo di revisione di tale portata, che implica necessariamente anche una ri-definizione del ruolo del fotografo, non può essere cosa di un giorno, visto che si tratta di fare ordine nella spaventosa accumulazione di immagini prodotte negli ultimi decenni. Molte, troppe le fotografie vuote. Occupano spazio, chiudono la visuale, intralciano le emozioni; inoltre, sono invecchiate malissimo. È tempo di buttare via. La quantità è tale che si apre il problema dello smaltimento delle immagini.
Chiedo scusa. Mi è scappato scritto. Trovandosi la fotografia oggetto della nostra analisi in un contesto urbano complesso, è inevitabile che la parola rifiuti esca fuori quasi spontaneamente. Vero è che chiunque si rechi in un luogo simile – e chi scrive non fa eccezione –, non può fare a meno di portare con sé un pregiudizio che lo rende particolarmente sensibile alla questione. E un pregiudizio, anche quando è fondato, resta comunque un pregiudizio. Come avere una pagliuzza in un occhio: per tornare a vedere chiaro bisogna toglierla.
Più facile a dirsi che a farsi, penso scendendo dal treno. Mi avvio verso l’uscita con questo pensiero in testa. Davanti a me cammina un giovane uomo sui trenta, abbigliamento e aspetto molto curati. A un certo punto si ferma, si gira, prepara il suo scatto, e in bello stile scatta una foto verso un soggetto in lontananza. L’immagine sembra sfocata. Il tipo sembra deluso. Resta un momento sul colpo, poi si gira e se ne va. Eccomi arrivato, penso. Il tempo di uscire dalla stazione. Davanti a me un assembramento di fotografi. Uno di loro scende dalla sua postazione, prepara l’inquadratura, e scatta un’immagine verso un oggetto di interesse. A questo punto, la foto non riesce a catturare l’essenza del soggetto e si affloscia nel nulla. Lui si fa avanti, rivede il suo scatto e si prepara a ripetere la foto. Fosse una sceneggiatura, la sequenza suonerebbe finta e sarebbe da buttare (cestino della carta). Per fortuna la realtà non è un film, et voilà: la pagliuzza è tolta. Pratica rifiuti espletata. Torniamo a parlare di fotografia. Siamo qui per questo.
Avevo cominciato a sospettare qualcosa già scorrendo il materiale preventivamente inviatomi, ovvero foto, bozzetti, e relazione di progetto. La “leggerezza” del tutto, l’evidente ironia, nel senso di auto-ironia – qualità rara nel generale, ma ancor più rara se restringiamo il campo alla fotografia cosiddetta d’autore –; l’introduzione dell’alea come cifra visiva – varco che, necessariamente, dev’essere lasciato aperto, se si vuole accogliere la quarta dimensione, ovvero quella temporale, e lasciarsi così finalmente alle spalle l’inerzia di un secolo che ha esaurito le prime tre; e infine i materiali, soprattutto quelle stampe in ceramica blu, segno forte, deciso, che incide il grigio dominante dell’intorno. Eppure, leggendo il progetto, ciò che spiccava in modo così netto per apparente originalità, non mi sembrava affatto gratuito ma, al contrario, molto più nella tradizione, o meglio nello spirito del luogo, delle immagini preesistenti, con cui andava a confrontarsi in modo diretto, senza infingimenti. Una leggerezza dotata di solide fondamenta dunque. Nel paradosso, il sospetto si era rafforzato.
Ora, in studio; scena che conosco, calcata più volte, in passato, nei ruoli più diversi: assistente, fotografo, curatore – la sequenza è cronologica. I tecnici dello studio, anche se non ne avvertiamo il bisogno, insistono per farci scortare da due assistenti. Fidarsi è bene, dicono, ma non fidarsi è sempre meglio. A una logica così stringente, opporre resistenza significherebbe solo perdere del tempo, e il nostro non è molto. Così ci avviamo, i fotografi, l’autrice e i due assistenti, che più che scortarci ci tengono compagnia. Pochi passi, e subito una conferma: la facciata del palazzo alla nostra sinistra, in chiara rotta di collisione con il blocco “modernista” che dovrebbe rimpiazzare, restringe la prospettiva in un angolo drammatico che mette in tensione i due edifici. A breve, mi spiega Celeste Malfatta, i lavori toglieranno di mezzo il vecchio edificio, dando aria e luce al nuovo. Devo dire che un po’ mi dispiace, aggiunge, perché il contrasto è interessante. Concordo. Ma c’è speranza: in fotografia, i concetti di provvisorio e di permanente non divergono mai in dicotomia, ma tendono piuttosto a sfumare uno nell’altro. Breve periplo dello spazio interno. Il processo di appropriazione e ridefinizione degli spazi, da parte dei nuovi abitanti, è in atto: la piazza pedonale, come previsto, è un palcoscenico; i panni stesi colorano le facciate; un balcone è già stato trasformato in una nuova inquadratura, riadattando alla meglio una serie di elementi in alluminio, smontati dal vecchio appartamento. L’autrice me lo indica con soddisfazione. Il progetto prevede l’abuso, mi spiega, anzi lo incoraggia. Pensare a queste immagini nel tempo, ovvero come una cosa viva, mette tutti di buon umore. Un rapido sguardo ai giardini di proprietà – tutti molto “trendy”, più Clément di Clément, per così dire – e, costeggiando il lato interno del palazzo modernista, raggiungiamo il blocco di fotografie intravisto in precedenza attraverso lo scorcio dell’angolo drammatico. Qui la visita si trasforma e prende una piega dialettica. Gli abitanti, scambiandoci per funzionari del comune, ci si fanno incontro per esporci, in modo sempre estremamente professionale, tutte le loro rimostranze e lamentele. Senza inquietudine, chiariamo l’equivoco. Ah!, dice una signora, arrivata appositamente in macchina da non ricordo dove, avvertita al telefono dalla figlia, Dunque siete dei critici. No signora, puntualizzo, Solo fotografi. E allora quel che avete visto lo dovete scrivere! Certo, dico, lo farò. È quel che faccio sempre.
Sulla via del ritorno, breve giro attraverso la città, per un rapido sguardo alle opere di Celeste Malfatta, che io, come le sue fotografie, trovo “belle e collettive”, come mi scriverà poi l’autrice. Anch’io le trovo belle. “Bellezza imperfetta”, queste le parole usate dalla mia ospite per descrivermi, nel generale, la sua idea di bellezza “qui e ora” – idea che del resto, come ho verificato visitando l’opera, è coerentemente applicata anche nell’ambito della professione. Di nuovo concordo! C’è di che preoccuparsi. Come diceva un grande così grande che non c’è nemmeno bisogno di citarlo: “Se è una bella giornata esco sempre con l’ombrello. Potrebbe piovere”.
Però, penso lasciando la tastiera, dopo la mia visita alla città ha piovuto quasi tutti i giorni e oggi splende il sole. In ogni caso il problema non si pone. L’ombrello non lo porto nemmeno quando piove.
Ceci n’est pas une fotografia.
Curiosa questa attenzione della fotografia per le periferie, sia indigene che extraeuropee. Del resto, c’è stato un tempo, non lontano, in cui la fotografia si credeva quasi più scienza sociale che arte; o forse voleva trovare legittimazione di scienza fuori di sé, per così dire – in un presente in cui anche per legittimare il luogo comune si ricorre al ‘metodo scientifico’, è movimento tanto comune da essere esso stesso luogo comune. Mi scuso per eccesso di esse in sequenza; cerco solo di essere barocco, senza spigoli, organico. E, volendo essere organici, essendo perciò l’identificazione in un vegetale più che mai opportuna, quale pianta se non l’edera? che, avendone la possibilità, è pianta anche prospettica. Ciò detto, procediamo con l’intarsio.
Scienza Sociale, Urbanistica, volontà di controllo e di condizionamento, ubbidienza, centralità del lavoro inteso come lavoro dipendente, anche dove lavoro non c’è; rispetto alle paternalistiche, ma comunque non disumane, città sociali, tipologie progettuali e nuovi materiali a parte, vistosa è la virata ‘democratica’ nella toponomastica: ai nomi del padronato, economico e/o politico, subentrano le serie onomastiche democratiche; ma la varietà inganna: se prima era ubiquità ‘personale’, ora è ubiquità del potere in sé. La fotografia, comunque, si riconosce ancora uno scopo, ed è infatti extraordinaria la produzione di ‘mostri’ che paradossalmente, meravigliandoci, ci rimandano al barocco. Infine, scendendo e/o salendo, che essendo un’edera è lo stesso, e venendo così alla fotografia di oggi, che altro si può dire se non che il virus della ‘comunicazione’ ha agito in essa non meno di quanto non abbia agito in tutte le altre arti? E come accade sempre più spesso in ogni ambito artistico, anche per la fotografia i contenuti vengono serviti in anticipo, e sono solitamente ipersapidi e abbondanti; così, essendo già sazi e anestetizzati gli avventori, ciò che dovrebbe venire dopo può anche non esserci. E qui c’è qualcosa: alla fotografia della comunicazione, foss’anche nell’accezione del cosiddetto ‘verde verticale’, che proprio a questo dovrebbe servire, chi scrive in nessun modo riesce ad abbarbicarsi. Tutto mi scivola. Bello o brutto non è rilevante. Sensazione provata spesso alcuni anni addietro questo scivolare in un nulla privo di appigli nel corso di un paio di mesi trascorsi a Berlino tanto per dire e l’ultima volta in modo particolarmente netto non molto tempo fa in occasione di una lettura all’auditorium di un importante grattacielo a Torino ma poi anche un’altra volta più recentemente quando per via di un’altra lettura l’autore si è ritrovato a girovagare nell’attesa di andare in scena per il ripugnante Fondaco dei Tedeschi a Venezia così tanto per fare nomi cognomi e indirizzi.
Voilà!, signore e signori e tutti gli altri generi vari. L’oggetto c’è, voi tutti lo vedete. Eppure non c’è! Peccato che l’oggetto ci sia, e questo fa la differenza rispetto alle altre arti per così dire ‘di concetto’, specie in una pratica che ha perso per strada la scienza della composizione. Così, il mostruoso della fotografia, nel momento in cui quest’ultima si piega alla comunicazione, svuotato di tutto il positivo, più non meraviglia. E senza meraviglia, né bellezza né bruttezza.
Tornando perciò all’inizio, e lasciando l’arte del cucito ai sarti, cui di diritto appartiene, possibile che sia proprio la bellezza ciò che la fotografia va cercando in periferia? E se, come credo, è così, perché questo? Ricerca di ‘forma nell’informe’. Ma è possibile progettare l’informe? Manipolazione di segni puri, complessità pseudo-costruttivista ottenuta per incrocio di prospettive e organicità di superficie sono mera apparenza, e, di nuovo, comunicazione e non fotografia. Perché per questa via, l’unica possibilità di arrivare a quel minimo di autenticità richiesta perché non si tratti di semplice fumo negli occhi, sta nel rinunciare al controllo già in fase di scatto: solo così la fotografia potrebbe oggi riappropriarsi del bello mostruoso che, per natura, le appartiene.
Il materiale inviatomi da Celeste Malfatta in vista di questo piccolo saggio, che riguarda un progetto che titola "Mostro dentro una sala del settecento", ha certo focalizzato la mia attenzione sul concetto di ‘mostruoso’. Ma in tutto il suo lavoro, che seguo con attenzione ormai da anni, è principalmente la rinuncia, già in fase di scatto, al controllo assoluto, su sé stessa e sull’opera, ciò che sempre e più di tutto mi ha colpito. Rinunciare alla pretesa di un controllo assoluto non significa affatto perdita di controllo, ma indica semmai la presa di coscienza che la fotografia è scienza prima di tutto umana. Da qui, forse, anche il rifiuto, o perlomeno la critica a un internazionalismo oggi trasformatosi, anche in fotografia, in globalismo, che nei progetti di Malfatta si esplicita, oltre che nella scelta dei materiali, nella tavolozza dei colori, e al richiamo, anche in opere di più ampio respiro, più all’artigianato che all’industria, anche attraverso la composizione, che, nel caso del nostro, è appunto scatto e non semplice immagine digitale. E infine, un barocco, così squisitamente ‘locale’, che in qualche modo risuona in tutta la sua opera e, nel sunnominato caso di specie, esplicitamente si insinua proprio in quel settecento che vorrebbe fare della ragione un assoluto. Del resto, i rapporti più profondi nascono solo dai contrasti.
Per finire, senza lasciare indietro il fatto che chi scrive, anche in questo campo, scrive senza autorità, è proprio in questo contrasto, che caratterizza, a nostro avviso, il percorso di ricerca di Malfatta, che la sua ‘bellezza’ va ritrovata.
Non-violent photography
Non c'è fotografia senza azione, non c'è fotografia senza eventi, non c'è fotografia senza programma. Di conseguenza, non c'è fotografia senza violenza. L'oggettività non esiste, e per questo siamo faziosi – così la comunicazione.
La fotografia non è comunicazione.
Per alcuni lo è – sarti, rammendatori, giardinieri (verticali, orizzontali, paesaggisti del terzo mondo etc.).
Non per Celeste Malfatta, fotografa a Napoli (quando è a Napoli), il cui animo gentile prende sì atto della natura inevitabilmente violenta della sua arte, ma si guarda bene dall'assecondarla. Da qui il suo viscerale rifiuto della prospettiva.
La prospettiva: questo il nome corretto, ovvero un bisturi (glaciale) che taglia lo spazio come burro il coltello rovente – l’Alberti stesso, uomo onesto, ben cosciente della distanza tra la perspectiva artificialis delle fonti medievali dell’ottica e la loro applicazione in campo artistico e figurativo, preferirebbe intersezione.
Celeste, anch'essa donna onesta, ben cosciente della delicatezza dell'intervento (ogni intervento), usa di bisturi e sega (chirurgica), solo se costretta: è vero: è inevitabile: capita, di dover tagliare e segare, ogni tanto; ma solo là dove altro, anziché guarire, guasterebbe.
Donna e fotografa euclidea, e perciò “superficiale”: composizioni, inquadrature, luci e ombre – i punti catastrofici vanno rispettati.
Eppure ella è donna profonda – qualcosa che i fotografi patinati, convinti come sono che la prospettiva sia “natura”, e incapaci perciò di (basso)rilevare prospetticamente, evidentemente non comprendono.
E poi, più che la forometria è la cromografia, ovvero gli inserti (intarsi) di colore – in questo caso una particolare frequenza di blu mediterraneo (partenopeo) – ad approfondire ciò che comunque è piatto solo sulla carta.
In sintesi estrema, ecco una fotografia gentile, irenica e barocca.
Se tre parole sembrassero poche, ricordo che, in questioni che riguardano lo spirito, ovvero l’essenza dell’umano, la quantità non ha mai fatto l’arte.
CELESTE MALFATTA
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